Molti anni fa passai qualche settimana a Manhattan per
frequentare il Drummer Collective, che era, ed è ancora, una tra le scuole di
batteria più rinomata nel globo, in virtù della nomea degli insegnanti.
L’esperienza nella grande mela fu indubbiamente
importantissima per me, non solo per
l’aspetto tecnico-musicale, motivo per cui approdai nel nuovo mondo, ma anche,
e direi soprattutto, per la favolosa miscellanea di genti con la quale venni a
contatto, multiculturalità imperante dalle molteplici forme sociali, che dava
luogo ad un universo di costumi, usanze e consuetudini tra le più disparate.
Uno dei miei passatempi preferiti nelle ore libere era
quello di bivaccare da Sbarro in Time Square, luogo che aveva la caratteristica
di avere degli sgabelli rivolti verso la parete a vetrata immediatamente
adiacente al marciapiede, così da potersi gustare, insieme al mediocre trancio
di pizza americano, la moltitudine di genti che passeggiava per quel crocevia,
moderno centro del mondo. Ed era davvero divertente, perché si vedeva realmente
di tutto: donne che passeggiavano con un pitone a mo’ di foulard, capigliature
bizzarre tra le più improbabili, banchieri con abito formale e la
ventiquattrore al braccio che incrociavano tizzi vestiti da Tarzan...insomma di
tutto. Letteralmente. L’aspetto che più apprezzavo era l’estrema naturalezza
con cui le persone esibivano il proprio aspetto, nonché la totale e reciproca
indifferenza rispetto agli altisonanti altrui costumi.
Che l’abito abbia una funzione sociale non sono certo io a
scoprirlo, così come vestirsi fuori moda è, in fondo, una moda stessa in alcuni
ambienti. L’abbigliamento e ancor più il life-style sono espressione del
proprio universo interno, del proprio carattere, del proprio modo di comunicare.
Come allora a NY, in qualsiasi moto-raduno o ritrovo sotto
l’egida del “Bar and Shield” io mi trovi, mi diverto a bere una pinta di birra
osservando il variegato, stimolante e modaiolo universo del mondo biker. Le
fogge sono meravigliosamente eterogenee. C’è il professionista benestante di
turno a cavallo dell’Electra, che fa bella mostra dei jeans strappati modello
“del sabato sera” corredati di catena, oltre che della maglietta col teschio e
Hogan ai piedi, calzatura sapientemente indossata come duro e scoraggiante
monito per ricordare l’estrazione sociale e il relativo status, o presunto
tale. C’è l’Harley-hentusiast, con tanto di braccio sacrificato al tatuaggio
del famoso logo, perpetua e votiva marcatura a fuoco che ne farà un endorser
dei divini bicilindri fino alle porte del paradiso. C’è il finto trasanda, con
barba incolta, bandana e camicia a quadri rossi (attenzione: look “finto”
trasanda, ovvero rigorosamente voluto,
totalmente ricercato, decisamente costoso) a cavallo del suo chopperino “Frisco
Style” monosella, replica, lui non la moto, del
biker dannato d’oltre oceano, che riempiva le cronache per le sue
azzuffate e per le scorribande su mezzi rigorosamente “not street legal”, con
tanto di caratteristici paesaggi californiani sullo sfondo. C’è il favoloso e
simpaticissimo palestrato, spesso sovrappeso e/o pelato, inondato di teschi
stampati sulle potenti e voluminose volte muscolari, con l’espressione truce e
intensa come fosse un Caronte del nuovo millennio, che, con la sua Street Glide
dall’impianto stereo vomitante note a cannone, traghetta orde di arlisti verso
infuocatissimi run. Inutile sottolineare, come ben tutti sappiamo, che sotto le
vesti di quest’ultimi si celano le anime più tenere e indulgenti, a dispetto
del look così aggressivo e bellicoso. Ci sono, infine, i collezionisti di
patch, che girano come alberi di Natale pieni zeppi di “attestati di
partecipazione”, dal run conosciuto alla sagra del tortello, stemmi splendidamente esibiti come per rivendicare a
gran voce quell’ “io c’ero” che fa tanta fratellanza, un po’ come i marines
quando piantarono la bandiera americana a Guam dopo aver sconfitto i
Giapponesi.
Attenzione, in questo caleidoscopio di costumi e colori mi
ci metto anch’io, perché è cosi che funziona l’ambiente biker, con gli
stereotipi e le esasperazioni proprie di ogni aggregazione: ognuno con la
propria maniera di esserci e di condividere il comune interesse. D’altra parte
si chiama “raduno” proprio per questo.
E allora che ognuno sia quello che vuole essere con buona
pace di tutti. In fondo è proprio vero che “ogni scarrafone è bello a mamma
soja”.
Ed ancor più quando la genitrice è di Milwaukee.
Ed ancor più quando la genitrice è di Milwaukee.