“Sarà capitato anche a voi…”,
diceva una di quelle canzoni protagoniste di quei tristissimi anni ’60 della
musica italiana, già costretta allora a rincorrere cover d’oltreoceano,
interpretate da personaggi con mediocri doti artistiche, che ancora oggi
vediamo rimbalzare da un canale televisivo all’altro, come delle mummie
itineranti che si manifestano in un’arena, inafferrabili Belfagor probabilmente
ancora intimamente all’oscuro della ragione del proprio misterioso successo.
Sarà capitato anche a voi, dicevo,
di provare un irrefrenabile bisogno di stare da soli insieme alla vostra moto,
di avere bisogno del suo suono, del suo vociare, dell’aria che ti butta sulla
faccia, dei paesaggi sempre diversi che ti propone, come fossero proiezioni
capaci di inventarsi continui disegni e trame.
Può sembrare strano di come il
paesaggio possa attraversarti, possa manifestarsi nelle sue espressioni più
varie e spettacolari e come tu possa essere così perso nelle tue riflessioni da quasi nemmeno
accorgertene.
Mi rendo conto di trovarmi spesso
in questa condizione, di aver bisogno di questo scenario nei momenti in cui una
decisione o un momento di intima meditazione mi attraversano.
La moto è lì, che mi restituisce
confidenza, familiarità, interiorità. E’ sempre pronta e paziente come un
meraviglioso Maestro di meditazione, lei Gandalf e io il suo piccolo Hobbith, lei
un’entità di ferro che mi avvolge con la sua aura, la sua energia, la sua
severità, io il suo apprendista curioso.
In più nella stagione invernale tutto ciò diventa ancor più
profondo ed evocativo, perché, come
anche suggerito da diverse religioni o correnti meditative, che di sofferenza
se ne intendono, il viaggio, attraverso la difficoltà e la complessità, diventa
ancora più forte, il dialogo più interiore e introspettivo.
C’è chi guida la moto e chi ha
BISOGNO di farlo, ognuno con il suo percorso e la sua emozione, senza che l’uno
debba essere meglio dell’altro.
Ecco quello che ho pensato in
moto oggi. Appunto.